Iniziativa "Porte Aperte a Scuola"
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Ministero dell'Istruzione dell'Università della Ricerca
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LETTURE UTILI

Come spiego al mio bambino che deve fare la pipì nel vasino?

su dicembre 11, 2012

Il passaggio pannolino-vasino può essere considerato come una problematica temuta da molti genitori, che verso i due anni del bambino(e a volte anche prima) inizia a farsi vivo nella mente dell’adulto. Il genitore, preso dall’ansia, spinge il piccolo verso il vasino, ma purtroppo il cambiamento non è cosi sistematico.

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Per raggiungere il controllo sfinterico il bambino deve aver completato la maturazione a livello nervoso degli sfinteri ed essere pronto a livello psicologico per poter superare il passaggio.

Togliere il pannolino significa dover permettere agli altri di vedere tutto quello che fino al giorno prima era racchiuso all’interno “dell’amico” pannolino, il quale conservava e proteggeva tutto al suo interno e lo celava allo sguardo estraneo.
Al contrario con l’uso del vasino tutto quello che il bambino porta all’esterno viene visto, sia dagli altri bambini sia dall’adulto e questa situazione può creare angoscia e rabbia nel bambino.
Durante questo difficile e importante cambiamento alcuni bambini possono incontrare delle difficoltà, con il tempo facilmente superabili. Il bamibno deve essere accompagnato per arrivare pronto ad affrontare il totale cambiamento.

Le feci per il bambino sono un regalo per l’adulto, infatti, nel primo periodo d’ambientamento difficilmente un bambino decide di evacuare al nido, ma preferisce aspettare di essere a casa con la mamma o con il suo papà; infatti, a un certo punto l’educatrice capisce che il bambino si sta rilassando e che incomincia ad aver fiducia sia in lei sia nell’ambiente; logicamente questa non è una regola che vale per tutti, perché ogni bimbo è un mondo a sé con delle caratteristiche particolari.

Le parole chiave in questo momento da tener ben presenti sono: ascolto, attesa e pazienza.
L’adulto deve mettersi in modalità di ascolto e ricevere i messaggi che giorno per giorno il bambino gli dà, deve saperli interpretare e dare le risposte più adeguate possibili; deve aspettare con pazienza che il bambino decida da solo quando togliere il pannolino rispettando i suoi tempi senza mai sforzarlo nel passaggio; solo quando il bambino si sentirà davvero pronto potrà affrontare il passaggio con facilità e con serenità senza provare né angoscia, né paura.

Il piccolo non va mai costretto, va piuttosto accompagnato e gli si deve spiegare il motivo di questo cambiamento, perché si rischierebbe che il bambino veda il passaggio come un cambiamento negativo e tutto questo porta a generare in lui paura, angoscia e rabbia. Credo che non ci sia nulla di gratificante nel sentirsi bagnato e nel doversi cambiare più volte al giorno e nel vedere i tuoi genitori che non sono per niente contenti della situazione e magari in alcuni casi intervengono anche verbalmente dicendo frasi o parole non molto carine.

Un’altra regola fondamentale: una volta deciso insieme di togliere il pannolino evitare che si torni indietro; ciò vuol affermare che il pannolino, passate logicamente le prime settimane, non andrebbe più rimesso in nessuna occasione, altrimenti il bambino rischierebbe di confondersi e di vivere un forte disagio.

Un piccolo suggerimento che diamo ai nostri lettori è quello di far diventare tutto un gioco: leggere una favola al bambino, fargli portare dei giochini, mentre è sul vasino le prime volte, potrebbe anche non voler aspettare lo stimolo perché si annoia; contare insieme fino a 10 e dire al bambino che alla fine della conta la pipì arriverà; dargli dei compiti inerenti (tirare lo sciacquone, strappare la carta igienica necessaria) insomma trovare degli escamotage per non far pesare questo momento al piccolo, farlo divertire e fargli vedere che è assolutamente normale!

Linguaggio bambini, come arricchire il vocabolario

Apprendimento: Linguaggio bambini, come arricchire il vocabolario

di Marzia Rubega

Le prime parole del pargolo sono accolte con grande tenerezza ed emozione da ogni genitore. Quando il piccolo inizia a parlare sembra che entri in una 'nuova' fase, forse così gradita dall'adulto perché pare semplificare la relazione.

Che cosa devono fare i genitori per un buon sviluppo del linguaggio del bambino? E via via che cresce che cosa possono fare per arricchire il suo vocabolario? Ecco i consigli di Monica e Rossana Colli, sorelle pedagogiste, che da anni lavorano con bimbi in età prescolare e scolare, autrici di numerosi saggi dedicati al mondo dell'infanzia e all'apprendimento.

Proprio l'ultimo lavoro (con A. Di Corato e Saviem), a gennaio in libreria, Quattro stagioni per giocare, (Erickson Edizioni) offre tanti consigli su come 'giocare' anche con il linguaggio.

1. Parlare fa rima con gattonare e camminare

Il bambino piccolo ripete le fasi evolutive dell’umanità: prima gattona, a sei-12 mesi, poi si alza in piedi e cammina, dai 10/12 mesi in avanti, infine parla, tra i 18-24 mesi. “È importantissima questa fase propedeutica di movimento per il linguaggio. Mentre parliamo, infatti, noi accompagniamo continuamente la parola ai gesti”, dice la pedagogista Rossana Colli.

2. Ci vuole una mamma “sufficientemente buona”

“Per poter apprendere il linguaggio il piccolo ha bisogno di avere vicino una mamma 'sufficientemente buona' (definizione di D. W. Winnicott, pediatra e psicoanalista inglese del secolo scorso ndr), amorevole e paziente (o una tata con le stesse caratteristiche ) che gli porta la lingua madre. Lo può fare attraverso canzoncine e filastrocche per le dita delle mani da fare sul corpo del bimbo pronunciando le parole con calma e in modo corretto,” dice Rossana Colli.

Quando incomincia la lallazione, dai cinque-sei mesi, ovvero il classico ma-ma; ba-ba; ta-ta, il lattante incomincia a plasmare una parte del suo cervello, quella che gli servirà a parlare. Questo linguaggio 'primitivo' è un linguaggio universale che appartiene a tutti i popoli del mondo.

In altre parole, il bambino impara il linguaggio “attraverso l’imitazione dell’adulto di riferimento. Le prime parole dei bambini sono sostantivi: mamma, papà, pappa. Successivamente, aggiunge degli aggettivi: mamma-bella; pappa-buona. L’aggettivo, a differenza del sostantivo, avvicina, crea una relazione con l'altro”, dice l'esperta.

Per i bimbi più grandi, soprattutto dai quattro ai sette anni, anche la scuola gioca un ruolo importante per arricchire il loro vocabolario. “In questo caso, è importante che l’insegnante sia un’abile narratrice: così, per imitazione, i bambini saranno portati a raccontare a loro volta, esercitandosi nella lingua”.

3. Evitare il bambinese

In ogni caso, è importante utilizzare con i bambini piccoli un linguaggio veritiero, ricco di immagini belle. “Non si deve usare il bambinese ('Vuoi bubu’?- Vuoi dodo?) ma occorre ricordare che è il bambino a dover 'salire' e non l’adulto scendere,” dice la pedagogista.

4. Ogni cosa ha il suo nome

La mamma e il papà devono sforzarsi di nominare sempre le cose con il loro nome. Per esempio, mi passi la palla blu? “Il bambino, infatti, fino al primo settennio procede per imitazione e impara osservando e ascoltando quello che succede intorno a lui,” dice la pedagogista Monica Colli.

5. Il potere delle filastrocche …

Non si parla solo per dare indicazioni o regole. La mamma, come si è detto sopra, dovrebbe ricordarsi di nutrire il linguaggio del bambino con le filastrocche. “Sarebbe importante recitarle già durante la gravidanza e poi riproporle al neonato e, in seguito, al bimbo più grande. Perché la filastrocca è una poesia-bambina che si accorda per suono e ritmo a quella del cuore-tamburo (lo dicono gli scrittori per l'infanzia Roberto Piumini e Bruno Tognolini),” dice la pedagogista.

Leggi anche: Filastrocche per bambini

6. … dei libri e delle fiabe

A casa (come al nido e alla scuola dell'infanzia), anche il genitore può ricorrere a preziosi 'alleati' per favorire l'apprendimento di nuove parole in modo giocoso e divertente. “I libri, iniziando da quelli senza parole e poi con parole e semplici frasi, insieme a fiabe e filastrocche, sono il primo, e validissimo, strumento, per arricchire il vocabolario del bambino”, dice Monica Colli.

Leggi anche: Scuola, i libri sviluppano il cervello

Le fiabe stimolano la fantasia e vincono le paure

7. Giocando si impara anche a parlare!

Una buona strategia per aiutare il bambino più grandicello (dalla materna in poi) ad accrescere il suo lessico è sicuramente il gioco. L’autore di riferimento per questo approccio è Gianni Rodari (il libro di riferimento per avere tante idee è la Grammatica della fantasia). “Un'idea può essere quella di trovarsi insieme, magari la sera dopo cena, e chiedere 'Quale parola avete imparato oggi?', 'Con quale parola magica ti vorresti addormentare?”, dice Monica Colli.

E’ anche divertente, per esempio, invitare il bimbo a cercare le parole dolci in cucina, quelle fredde in bagno, quelle calde in tutta la casa...

E ancora: si può giocare agli “elenchi”. L'elenco, è un ottimo stratagemma per arricchire il lessico giocando. Basta poco... “La tua cartella piena di libri, con che cosa potremo riempirla? Di sogni, dolci, animali..”

8. Che cosa significa quella parola?

Già alla scuola dell'infanzia, il bimbo può imparare tante nuove parole, “grazie a belle letture e a una relazione significativa con l'adulto”. Il bimbo, a volte, 'inciampa' in parole che non conosce e lui stesso imparerà a chiedere alla mamma (o alla maestra): 'Cosa vuol dire?', 'Cosa significa?'. E poi, userà anche termini difficili in modo appropriato”.

9. Smartphone, tablet e tv, sì o no?

Oggi, il bimbo vive, spesso, in mezzo a computer, tablet, smartphone: mezzi tecnologici, come quelli touchscreen, facili da usare anche per lui. Passarci del tempo per giocare con fiabe interattive, storie e canzoncine aiuta ad ampliare il vocabolario del piccolo?

“Determinati contenuti, se scelti con cura, possono essere strumenti utili ma ci deve essere altro: la relazione con l'adulto e il tempo per seguirlo”, dice Monica Colli. Attenzione però: i bambini devono passare poco tempo con questi nuovi strumenti e non tutto il loro tempo libero come si vede sempre più spesso.

E la 'vecchia tv', può aiutare a sviluppare il linguaggio? “Per metterlo davanti alla tv, sono assolutamente necessarie alcune accortezze, programmi e contenuti adatti, colori non troppo accesi, che sono dannosi, soprattutto per i più piccoli,” dice Colli. Le stesse cautele arrivano anche dall'American Academy of Pediatrics: lo schermo della tv (e anche quello di pc o smartphone, specifica uno studio di quest'anno, vale come la tv) andrebbe evitato fino ad almeno due anni. Più avanti, occorre fare molta attenzione alla quantità di tempo e ai programmi a cui il piccolo viene esposto.

10. Troppa fretta non fa bene al linguaggio

“Il linguaggio si sviluppa quando c'è tempo per sostare, per indugiare, serve lo 'spazio' nella mente per rielaborare e 'vagolare'. Anche nella scuola dell’infanzia varrebbe la pena fare di meno, ma osservare di più i bambini con tutto quello che ci portano. In altre parole, qualsiasi capacità intendiamo sviluppare nel bambino deve essere proposta attraverso i gesti, i suoni e i ritmi... Ecco perché filastrocche e girotondi piacciono tanto – dice la pedagogista.

“Nel corso della primaria, per esempio, capita che un ragazzino prenda sulla pagella 10 in italiano e poi a settembre dopo le vacanze un sei scarso: sembra essersi dimenticato tutto... Un fatto del genere si verifica perché non ha avuto tempo di fissarsi le regole che altrimenti rimangono - sottolinea la pedagogista.

La tendenza, oggi, è di fare tutto di corsa, di voler cogliere ciliegie tutti i mesi: il colore può risultare quello giusto, ma il sapore, poi, non c'è. Questa è una cosa che dobbiamo capire noi come adulti”.

Il linguaggio non può e non deve essere pensato come uno strumento usa e getta. Al contrario, è uno strumento del pensiero, di relazione e di comunicazione e ha bisogno di tempo per diventare consistente, crescere e acquisire profondità e spessore. E chissà - conclude la pedagogista - che in questo modo, non si permetta davvero ai bambini del futuro di trovare la propria voce”.

11. Ogni bambino ha i suoi tempi

Non bisogna dimenticare la lezione del celebre psicologo svizzero Jean Piaget: le fasi dell'apprendimento si susseguono in modo regolare ma hanno una durata che varia in base a ogni bimbo e al contesto in cui vive. E, in ogni caso, il piccolo deve essere pronto e maturo per sviluppare determinate capacità. Non tutti i bimbi, per esempio, imparano a camminare a 12 mesi, c’è chi comincia prima e chi dopo e questo vale anche per le prime parole.

Un concetto che Monica Colli ribadisce con grande energia: “Il genitore, spesso, ha un ritmo di vita molto intenso e cerca di trasferirlo sul bimbo chiedendo anche a lui di seguire ritmi che non sono i suoi. Nei primi anni, il bimbo apprende anche portando alla bocca le cose, cerca di farle sue, lui è 'un organo di senso' e assapora quello che lo circonda”.

“L'approccio ideale è seguire le tappe evolutive del bimbo, conoscere quali progressi appartengono a ogni fascia d'età, e poi, in base al bimbo 'reale' che hai davanti, adeguarti. L'accelerazione rischia di creare frammentarietà, confusione, generando insicurezza,” conclude la pedagogista Monica Colli.

IL LAVORO INIZIA ORA

Siamo una delle tante coppie mamma figlia che non vengono dall'esperienza del nido, dell'aiuto dei nonni, della tata. Siamo state per tre anni una piccola squadra: io e Camilla. Una squadra vincente, pensavo, cresciuta durante le lunghe giornate d'inverno in casa, le notti di febbre mano nella mano sotto le coperte, le bellissime passeggiate. Poi siamo arrivate ai cancelli dell'asilo. I primi venti dell'autunno, l'aria che profuma di cambiamento, i nostri abbracci che diventano rocce, i nostri ciao pieni di malinconia. Tutto bene per una settimana, e poi ieri il primo rifiuto, il primo pianto disperato. Mia figlia in una frase ha racchiuso tutto : Mamma, non mi abbandonare. E in quella frase, in quelle urla, in quell'amore incondizionato, ho capito che il lavoro è appena cominciato. Io, ingenua mamma , pensavo che il difficile fosse ormai passato. E invece, è giunto il momento di insegnare a mia figlia che io ci sarò sempre, che vado ma poi torno, che se anche non mi vede, non vuol dire che non penso a lei. E così ogni giorno, finchè vivrò. Buona fortuna a tutte le mamme.

da LETTERA APERTA DI UNA MAMMA
Vanity Fair del 10/10/2012
Foto: IL LAVORO INIZIA ORA Siamo una delle tante coppie mamma figlia che non vengono dall'esperienza del nido, dell'aiuto dei nonni, della tata. Siamo state per tre anni una piccola squadra: io e Camilla. Una squadra vincente, pensavo, cresciuta durante le lunghe giornate d'inverno in casa, le notti di febbre mano nella mano sotto le coperte, le bellissime passeggiate. Poi siamo arrivate ai cancelli dell'asilo. I primi venti dell'autunno, l'aria che profuma di cambiamento, i nostri abbracci che diventano rocce, i nostri ciao pieni di malinconia. Tutto bene per una settimana, e poi ieri il primo rifiuto, il primo pianto disperato. Mia figlia in una frase ha racchiuso tutto : Mamma, non mi abbandonare. E in quella frase, in quelle urla, in quell'amore incondizionato, ho capito che il lavoro è appena cominciato. Io, ingenua mamma , pensavo che il difficile fosse ormai passato. E invece, è giunto il momento di insegnare a mia figlia che io ci sarò sempre, che vado ma poi torno, che se anche non mi vede, non vuol dire che non penso a lei. E così ogni giorno, finchè vivrò. Buona fortuna a tutte le mamme. da LETTERA APERTA DI UNA MAMMA Vanity Fair del 10/10/2012

I “trucchi” delle maestre per farsi ubbidire dai bambini

Educazione: I “trucchi” delle maestre per farsi ubbidire dai bambini

di M.Cristina Renis

Il nostro bambino è forse un piccolo dottor Jekill e signor Hyde? No, tranquille, non ha certo una doppia personalità come il celebre protagonista del romanzo di Stevenson, ma solo un diverso modo di reagire alle regole e agli adulti di riferimento, cioè genitori e maestre. Ma perché? Siamo forse inadeguate al ruolo di mamme e le maestre d’asilo hanno una marcia in più? E quali sarebbero i loro “segreti”? Come fanno loro a gestire una classe di 28 bambini se noi, a volte, non siamo in grado di gestirne uno solo, per di più nostro figlio?

Per capire meglio quali sono le armi che le educatrici utilizzano in classe per farsi ascoltare, e come si pongono di fronte al bambino con un problema, abbiamo intervistato tre maestre di scuola materna che fanno riferimento a tre diverse discipline pedagogiche: quella tradizionale, quella steineriana e quella montessoriana. Vediamo nel dettaglio le loro risposte.

Il bambino si rifiuta di riordinare i giochi

Educazione e scuola: Il bambino si rifiuta di riordinare i giochi

di M.Cristina Renis

“Quando è il momento di rimettere a posto i giochi prima di tutto attiro l’attenzione dei bambini battendo le mani e poi li invito a riordinare” ci racconta Ilaria Violi, maestra della scuola d’infanzia Rossello di Milano. “Certamente aiuto i più piccoli, cioè quelli di 3 anni, perché devono ancora imparare, oppure affido un piccolo a un bambino di 4 o 5 anni che gli fa da tutor (e che è anche gratificato dal suo ruolo di “grande”). Molto spesso infatti, il bambino non riordina non perché non vuole farlo, ma perché non sa farlo: la prima regola quindi è spiegargli come si fa, insegnargli a mettere in ordine”.

“Nel nostro asilo si riordinano i giochi più volte al giorno” dice Pina Faleni dell’asilo Rudolf Steiner di Milano. “Ma non è necessario alcun richiamo perché rientra in un gesto abituale:

secondo la nostra impostazione pedagogica, infatti, la giornata è scandita dalla ritualità, e la quotidianità dei gesti ripetuti non dà necessità di richiami o rimproveri, implica l’azione come naturale e spontanea. Fondamentale nella prima infanzia è anche il concetto dell’imitazione: al momento del riordino perciò la maestra intona un canto per catturare l’attenzione e si china a raccogliere gli oggetti: il bambino, che riconosce il canto o la filastrocca come un campanellino che annuncia una nuova fase della giornata, si china anche lui a raccogliere per spirito di imitazione. Il momento del riordino diventa quindi un momento collettivo, in cui si esprime il desiderio di aiutare gli altri nelle proprie possibilità”.

“Tenere in perfetto ordine il materiale mette ordine nel campo percettivo del bambino” racconta Eleonora Vitrugno, maestra della Casa dei Bambini Maria Montessori di via Arosio a Milano. “Dare al materiale un posto fisso, infatti, presentare ogni lavoro a ciascun bambino prendendolo da dove si trova e, dopo aver mostrato come si esegue, riporlo al suo posto, offre al bambino lo spunto dell’imitazione, concetto attraverso il quale il bambino apprende. I materiali sono esposti alla libera scelta del bambino e collocati alla sua portata di mano, quindi riesce a farlo da solo. Se proprio non vuole riordinare lo invito a farlo insieme, ma spesso c'è anche qualche bambino che si accorge che il materiale non è stato riordinato e invita il bambino che l’ha usato a metterlo a posto. Il ruolo dell’adulto è fondamentale e i bambini sono portati a imitare i suoi gesti. Non ci sono bambini disordinati, ma solo bambini che non sono stati educati all’ordine.

Il metodo Montessori pone grande rilievo all’autoeducazione perché il bambino, inconsciamente, ci chiede “aiutami a fare da solo”. L’ambiente della scuola dell’infanzia è composto da materiali che piacciono al bambino e da attività di cura dell’ambiente (spolverare, spazzare...): il bambino così sperimenta se stesso, ma diventa anche padrone dell’ambiente.

In una Casa dei Bambini i bambini svolgono i lavori necessari: scopano, spolverano, apparecchiano la tavola, arrotolano a tappeti, sanno vestirsi e svestirsi, appendono i vestiti a piccoli attaccapanni… Questo metodo offre al bambino cose vere in miniatura, rendendolo attore di una scena vivente. Ogni utensile sarà disposto in modo razionale, ordinato e facilmente accessibile. Esattamente come facciamo a casa nostra. Ciascun dettaglio deve essere studiato e previsto per favorire il mantenimento dell’ordine senza prediche: un posto per ogni strumento, matite, gomme, temperini, ecc. ben suddivisi, perché tutto deve essere curato. Ogni sciatteria nell’ambiente genera nuove sciatterie, idee confuse, spreco, così come l’incuria degli adulti provoca comportamenti incerti e disordinati.

Nella Casa dei Bambini ogni bambino gestisce l’ambiente, partecipa al mantenimento del suo ordine, lo adatta ai propri fini formativi e sviluppa il suo sentimento di appartenenza in un amore per l’ambiente che sviluppa la sua identità”.

Mio figlio non sa condividere i giochi

 

Educazione e scuola: Mio figlio non sa condividere i giochi

di M.Cristina Renis

“È un atteggiamento abbastanza comune nei bambini di 3 anni, che stanno affrontando da poco la vita in comunità” sostiene Ilaria Violi. “In genere mi metto a giocare insieme a lui cercando di pormi come mediatrice tra lui e l’altro bambino, oppure proponendo loro uno scambio di giochi: per esempio tu ora giochi con la macchinina e tu invece con il peluche, poi li scambiate”.

“In queste occasioni si fa appello al bambino più grande al quale si spiega con calma il saper attendere che il più piccolo finisca di giocare” racconta Pina Faleni. “All’asilo Steiner si lavora molto sui concetti di attesa e di consolazione, cioè “aspetta e poi sarà il tuo turno”: è un modo salutare per pensare al divenir, che rientra sempre nell’idea di ripetitività della vita che sta alla base del nostro metodo”.

“Nelle classi della Casa Dei Bambini c’è un solo esemplare di ogni materiale di lavoro di (per esempio incollature, ritagli, cuciture, ecc.), quindi se un bambino si è accostato alla scatola del punteggio e un altro la vuole, deve aspettare che il compagno abbia terminato di utilizzarlo e che lo riponga al suo posto” spiega Eleonora Vitrugno. “In tal modo il bambino apprende la capacità di attesa che può gestire attraverso l’osservazione del compagno o la scelta di un’altra attività. Se invece in giardino non gioca con nessuno, propongo a lui e altri due o tre bambini un gioco da fare insieme, ma se continua a isolarsi chiedo alla mamma se è possibile invitare un compagno a casa”.

Non mangia in modo composto

 
Educazione e scuola: Non mangia in modo composto

 

di M.Cristina Renis

“A tavola il concetto di imitazione è fondamentale” spiega Ilaria Violi. “Purtroppo però il bambino carpisce non solo gli atteggiamenti postivi ma anche quelli negativi, per esempio un comportamento scorretto di un compagno. Il ruolo della maestra in queste occasioni è determinante perché deve spiegare l’azione corretta e spronare i piccoli all’imitazione, convincerli che si fa così, insistendo giorno dopo giorno. È molto utile anche presentare l’esempio corretto sotto forma di gioco, per esempio il cucchiaio che entra in bocca come un aereo, mentre il gioco tradizionale deve essere bandito dal momento del pasto: se un bambino gioca a tavola non lo faccio giocare dopo, non deve esserci confusione tra i due momenti”.

“Il pasto è un momento fondamentale dello stare insieme” dice Pina Faleni “e i bambini mangiano in modo corretto e in armonia perché ci si siede a tavola ai propri posti dopo i riti della pulizia delle mani e della preghiera che creano un’atmosfera di serenità e compostezza. Per questo non si verificano mai episodi di disordine, e se per caso si rovescia un bicchiere è solo un incidente che può capitare a chiunque. I bambini sanno che a tavola si osservano delle regole precise, per esempio “il silenzio è d’oro al tavolo del re”, oppure dopo si aiuta a sparecchiare con armonia, non si butta via il cibo, anche perché un giorno alla settimana i bambini preparano il pane e capiscono l’importanza e la preziosità del cibo e la fortuna di poterlo mangiare, a differenza dei bambini più sfortunati. L’educazione e il rispetto delle regole sono anche frutto della ripetitività quotidiana di azioni corrette”.

“A tavola si devono osservare delle regole precise, ma affinché le regole vengano accettate è necessaria la totale condivisione e la coerenza genitori/scuola” dice Eleonora Vitrugno. “La condivisione di una regola, infatti, ne aiuta l’accettazione. A volte i bambini che mangiano scomposti lo fanno perché a casa mangiano nel seggiolone oppure davanti al televisore acceso, quindi è normale che trovando a scuola modalità diverse da quelle di casa trovano difficile stare seduti composti. Certo, l’insegnante dà fiducia al bambino e rispetta i suoi tempi”.

Mio figlio è prepotente e aggressivo

 

Educazione e scuola: Mio figlio è prepotente e aggressivo

di M.Cristina Renis

“Il bambino prepotente esprime un disagio personale che può significare tantissime cose” dice Ilaria Violi. “In genere cerco l’aiuto dei genitori per capire l’origine del problema, mentre con lui, se usa un linguaggio non consono (per esempio le parolacce) cerco di ripetere la parola storpiandola o faccio finta di nulla perché a volte i bambini ripetono parole che hanno sentito ma senza conoscerne il significato. Se invece si comporta in modo provocatorio con l’adulto, cerco di ignorare e tenere duro: per il bambino, infatti, essere ignorati è la cosa più frustrante e sicuramente smetterà di comportarsi in questo modo”.

“Un comportamento scorretto è indice di un problema personale del bambino” spiega Pina Faleni. “Bisogna prima di tutto capire con i genitori il motivo che lo porta a comportarsi così: può essere un bambino con una giornata con troppi impegni, stimoli e tensioni, l’arrivo di un fratellino, un trasloco, la morte di un nonno, ecc, che determinano nel bambino ansia e gesti di autodifesa, che poi lui esprime in modo aggressivo. L’importante è non dare subito un giudizio affrettato ma cercare di trasmettere tanta fiducia e amore positivo al bambino, individuare e capire il problema con la famiglia e studiare la soluzione: magari semplicemente organizzando orari diversi nei ritmi della giornata”.

“Solo un’attenta valutazione ci farà capire da quale contesto è motivata l’aggressività o la prepotenza del bambino” dice Eleonora Vitrugno. “Infatti è sempre necessario, prima di qualsiasi nostra reazione, capirne il perché. Alla base del sistema educativo Montessori c’è la fede nel bambino e la speranza di essere in grado di poterlo aiutare, un concetto che Maria Montessori ha definito con poche parole: “aiuto alla vita”. In quest’espressione c'è tutto, fede nel bambino e nelle sue potenzialità. Un consiglio che trovo utile dare ai genitori è quello di stabilire poche regole, chiare, coerenti e ragionevoli e di farle rispettare.

Comunque non esistono castighi o punizioni, nel caso si comporti male si invita il bambino ad allontanarsi dall’ambiente e ad osservare, si sposta e gli si dà un compito. Le strategie sono differenti, ma di certo non punitive”.

Non vuole andare all'asilo

Educazione e scuola: Non vuole andare all'asilo

di M.Cristina Renis

“Il momento del distacco è sempre molto delicato” dice Ilaria Violi. “e non è nemmeno vero che un bambino che ha frequentato l’asilo nido è agevolato nell’inserimento alla scuola materna, perché ci sono routine diverse. Innanzitutto la mamma si deve dimostrare decisa nel salutarlo affidandolo alla maestra, perché il bambino avverte immediatamente la tensione della madre. Se poi il problema persiste suggerisco di coinvolgere il papà o un nonno nell’inserimento o nell’accompagnamento a scuola: ho vissuto l’esperienza di casi del genere che si sono risolti con grande facilità in questo modo, proprio perché il bambino e la mamma avevano un legame troppo fisico con la mamma ed entrambi non riuscivano a staccarsi”.

“La ritualità dei gesti è fondamentale per dare fiducia al bambino, e così anche il percorrere la stessa strada per recarsi all’asilo tutte le mattine è un modo per infondergli sicurezza e certezza che si sta andando in un luogo dove troverà tranquillità, affetto e accudimento e non vivrà eventuali traumi al momento del distacco” commenta Pina Faleni. “Se invece un bambino fa fatica a staccarsi dalla famiglia significa che non è pronto ad affrontare l’asilo: non a caso il metodo Steiner fino a qualche decennio fa ammetteva alla scuola materna i bambini di 4 anni perché questa è l’età in cui hanno raggiunto la maturità per affrontare la comunità e iniziare a staccarsi dall’ambiente familiare. Ora abbiamo abbassato l’età a 3 anni per motivi legati ai problemi della società attuale (per esempio la mamma che lavora), ma se un bambino incontra serie difficoltà nel distacco suggeriamo di rimandare l’iscrizione”.

“Se al mattino diventa difficile il distacco” spiega Eleonora Vitrugno “cerco di invitarlo a entrare attraendolo con qualche attività che so potrebbe piacergli: per esempio andiamo a prendere un libro dalla biblioteca della scuola e poi lo leggiamo, oppure gli preparo il giorno prima un lavoro che so potrebbe interessargli e al momento dell’accoglienza glielo comunico, oppure a volte cerco di farlo sorridere per attenuare l’ansia che a volte i bambini mostrano al momento dell’ingresso a scuola. Ai genitori spesso suggerisco di portare da casa un pupazzo o un libro a cui il bambino è particolarmente legato, per poi leggerlo o giocare in classe con i compagni”.


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